«I libri sono una cosa abbastanza buona, ma non sono che un misero surrogato della vita. Mi pare un peccato starsene seduti come Lady Shalott a scrutare uno specchio, voltando le spalle al turbinio e al fascino della realtà. E  se un uomo legge molto, come ci ricorda il vecchi proverbio, gli resterà poco tempo per pensare». Con questo paradosso che demistifica il libro e la lettura, prende avvio la lettura del libro di quel campione di arguzia e di sottile positiva provocazione che è stato Robert Louis Stevenson. Libro che si apre con una divertita e divertente dissertazione sulla pigrizia e, in sua difesa, si stende un irridente saggio di difesa della libertà d’ozio: che, beninteso, nella prospettiva stevensoniana, non è il comune “non far niente” ma un’attività intellettuale molto precisa e faticosa. Al contrario, sembra dire Stevenson, far nulla è «l’attività frenetica, che sia a scuola o all’università, in chiesa o al mercato, mentre il saper oziare implica un appetito universale e un forte senso d’identità personale». E l’ozio, però, non è l’unico argomento in cui, in questo libro, si esercita il gusto del paradosso e l’artificio dell’iperbole arguta: alla difesa dei pigri, si alternano dissertazioni sul carattere dei cani, analisi della vecchiaia scorbutica e della gioventù, consigli su come apprezzare i luoghi sgradevoli, osservazioni sulla conversazione e sui conversatori, pensieri e filosofia degli ombrelli, ed altro ancora…
Proprio l’ultimo dei saggi inclusi in questo volume, scritto da Stevenson ai tempi dei suoi studi universitari e pubblicato sull’Edimburgh University Magazine nel 1871, concede giustamente il titolo al libro: un’analisi gustosissima dell’ombrello come simbolo di uno status e di una cultura. L’ironica e dissacrante satira, tuttavia, nasconde una interessante proposta di semeiotica della moda e dei suoi accessori, che attraverso il possesso e l’uso che ognuno ne  fa possono diventare appendici della nostra identità e “annunciarci” agli altri con non trascurabile esattezza. I molti capitoletti del libro sono tutti, in realtà, episodi divertenti di un unico viaggio satirico, al modo di Stevenson, intorno all’uomo, alle sue presunzioni e alle sue contraddizioni, alle presunte verità ed alle certezze facilmente demolite da un capzioso, quanto dissacrante, ragionamento per opposti. Non c’è ricerca di verità e non c’è conquista di saggezza che possa tenere il passo a tanta dissacrante ironia specie se, come nel caso di Stevenson, essa è condotta col sorriso sicuro e tranquillizzante di chi sa che «non c’è alcuna risposta al mistero tranne che ce ne sono tante quante ne vogliamo; che non c’è un centro del labirinto perché, come la famosa sfera, il suo centro è ovunque».

Angelo Piero Cappello

 

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