Dal Midcult al pop, andata senza ritorno
Paul Klee, uno dei giganti dell’arte novecentesca. Chi ignora tutto su di lui, nazionalità svizzera tedesca compresa, il suo nome lo pronuncia così come è scritto, paul kle; per chi invece pensa di saperne qualcosa in più, l’inglesizzazione diventa quasi automatica e lo pronuncia pol kli (un po’ come il walter bengiamin di alcuni nostri intellettuali da asporto televisivo). Quel pol kli mi pare renda perfettamente cosa si debba intendere per midcult, la categoria che Dwight Macdonald più di mezzo secolo fa, in un saggio dal titolo Masscult e Midcult, oggi ripubblicato dalla casa editrice pratese Piano B, innalzò a bersaglio privilegiato fino a farne un personale marchio di fabbrica; marchio che gli valse anche – caso più unico che raro per un intellettuale americano – la notorietà presso un’intellighenzia europea intenta a esplorare, nei Sessanta e Settanta, il fitto bosco della comunicazione di massa e dei suoi intrecci socio-politici. Cos’è il midcult? Mi pare chiaro: è la mezza cultura, la cultura del vorrei ma non posso, tipica della famigerata categoria piccolo-borghese, tradizionalmente depositaria per il pensiero progressista di tutte le reazioni e di tutti i disgusti.
Ma chi era Dwight Macdonald? Dire che era uno dei New York Intellectuals, quel gruppo di intellettuali che da ex comunisti degli anni Trenta si erano trasformati (spesso previa tappa nel troskijsmo) in accesi anticomunisti alla vigilia della Seconda guerra mondiale, asserragliati nella celebre e influente Partisan Review, dice qualcosa ma non dice tutto. Non dice per esempio che Macdonald in quel gruppo era uno dei pochissimi (come lui Edmund Wilson, William Barrett, Mary McCarthy, Lionel Trilling e forse nessun altro) a non essere ebreo. Non solo: a non essere ebreo, magari nato nel Bronx in una famiglia in cui si parlava ancora yiddish, e ad essere cresciuto in condizioni di tranquillità economica (padre avvocato, casa in Upper Manhattan). Un New York Intellectual a parte, dunque, che non per nulla con quegli altri, arrivò anche allo scontro aperto.
Accadde nel 1943: loro, esponenti della prima generazione che anteponeva l’americanità all’ebraismo, sempre più vicini a un potere politico che cominciava a capire l’utilità degli intellettuali, poco scandalizzati dal maccartismo e apertamente favorevoli all’intervento in guerra; lui, come il grande Randolph Bourne all’epoca della Prima guerra mondiale, invece preferiva di no, al punto da decidere nel 1943 di andarsene e fondare (l’anno successivo) una rivista tutta sua, politics (con la p minuscola). Insomma, in quella comunità intellettualmente assai dotata che aveva annacquato la propria vocazione eccentrica diventando da apocalittica sempre più integrata, Mcdonald era rimasto, come un Delmore Schwartz, come un Irving Howe, fondamentalmente un eccentrico; di quanto Macdonald lo fosse, se ne era avuta traccia del resto già nel 1937, quando aveva detto addio alla remunerativa rivista Fortune per dissidi con gli editori.
Il saggio di Macdonald fu pubblicato per la prima volta nel 1960, sulle pagine della Partisan Review, in due parti: la prima in primavera, la seconda in autunno (quindi ripubblicato due anni dopo nella raccolta di saggi Against The American Grain: Essays on The Effects of Mass Culture). La teoria gerarchica della cultura highbrow, middlebrow e lowbrow era nota da qualche decennio, da quando un critico oggi completamente dimenticato come Van Wyck Brooks l’aveva immessa nel linguaggio corrente. A rendere familiari i termini avanguardia e kitsch era stato invece l’omonimo e fin troppo sopravvalutato saggio apparso anch’esso – che te lo dico a fare – sulla Partisan Review, nel 1939. In quel testo, il critico d’arte Clement Greenberg elevava l’avanguardia a unica sacra depositaria di catartici valori morali, e visto che dove esiste un’avanguardia esiste anche una retroguardia, quest’ultima veniva a coincidere con il kitsch: la letteratura e la musica popolare, i loro rotocalchi, le loro copertine delle riviste, le illustrazioni, la pubblicità, ecc. ecc.
L’ostilità per la cultura bassa non era certo nuova – il sociologo Adorno, americano dal 1938, ne aveva fatto un vero e proprio vessillo – ma per gli Stati Uniti lo era eccome, in una società fondata sulla fuga da ogni aristocrazia e costruita su un’unica, dilagante omologante middle class. Sui compagni newyorkesi Macdonald e Greenberg, la nuova scuola di Francoforte aveva fatto presa, ma era stato Greenberg (che leggeva il tedesco) a metterla a frutto, facendo tesoro delle discussioni con lo stesso Macdonald che lo aveva spronato a scrivere il saggio, salvo poi decidere di dedicarsi personalmente a quello stesso tema. Lo fece sul primo numero di politics, con l’articolo A Theory of Popular Culture, in cui riproponeva la distinzione greenberghiana, riservando attenzioni particolari ai film d’arte sovietici dell’epoca della rivoluzione. A differenza di Greenberg, chiuso nell’autonomia della pittura e nel formalismo astratto, Macdonald aveva allargato lo sguardo, distinguendo tra cultura popolare e cultura media, a non fare insomma di tutto il kitsch un fascio come Greenberg.
L’impulso era venuto da un personaggio assai rappresentativo per la cultura d’oltreoceano e forse proprio per questo in Italia sconosciuto ai più. Il suo nome era Gilbert Seldes, autore nel 1927 di un libro intitolato The 7 Lively Arts (le sette arti vive) in cui esaltava proprio ciò che Greenberg avrebbe più tardi squalificato (Edmund Wilson, che Seldes aiutò nei suoi primi passi, definì il libro “un pregevole e assai godibile libro sulle arti volgari”), e nel 1938 addirittura di un saggio che individuava nella classe media il possibile punto di caduta della società americana al punto da intitolarlo Your money and your life, a manual for ‘the middle classes’.
Il succo del discorso di Seldes era che queste arti popolari, create e ammirate principalmente a livello più basso (lowbrow) ma promosse e in qualche modo apprezzate in zona highbrow, erano guardate con sdegno per la loro volgarità proprio dalla middle class, da coloro i quali si sentono solitamente a disagio in presenza della grande arte, almeno fin quando non sia stata ufficialmente approvata. Seldes parlava per se stesso, cioè da americano medio colto, ma senza alcun complesso di inferiorità nei confronti della cultura. Amava Eliot e Joyce, ma anche il cinema di Charlie Chaplin, dei fratelli Marx, o la musica di Irving Berlin e George Gershwin, scriveva sull’eliotiano Criterion (di cui fu anche il corrispondente newyorkese) ma anche su Vanity Fair e soprattutto, dal 1926, sul Saturday Evening Post, il settimanale da molti considerato interprete e specchio fedele della società americana, quello delle famose copertine di Norman Rockwell (da noi più tardi imitato dalla Domenica del Corriere). Rispetto al circolo della Partisan Review, come lo zenith al nadir. Un altro mondo. Di là l’highbrow per pochi eletti (massimo 10mila copie nei momenti aurei), di qua il middlebrow per famiglie da oltre 1 milione di copie. Come Seldes, anche Macdonald parlava da americano colto, ma con spiccato accento newyorkese, per dir così, più eurofilo; come Seldes, anche Macdonald fu amico e ammiratore di Eliot e come Seldes si occupò anche di critica cinematografica; solo che a differenza di Seldes, Macdonald del cinema hollywoodiano pensava quello che pensava la maggior parte dei New York Intellectuals, che fosse commerciale, cioè e che il grande cinema fosse per lo più da cercare in Unione sovietica.
Facendo propria la tesi di Adorno, Macdonald sosteneva che la cultura di massa era imposta dall’alto. Seldes dai francofortesi era lontano, eppure a ben vedere Seldes e il più giovane (di tredici anni) Macdonald non erano poi così lontani l’uno dall’altro. Perché le certezze del disincantato fustigatore del midcult altro non esprimevano se non i dubbi già sollevati da Seldes sulla tenuta culturale della classe media americana; che poi erano gli stessi di quel Wright Mills fiero antagonista della power élite (e già collaboratore di Macdonald a politics) rifugiatosi alla fine nella sfera utopistica dell’immaginazione sociologica. Insomma, Macdonald sarà stato anche più indietro (più regressivo, cioè) prima, ma di sicuro si è rivelato più avanti dopo.
Perché è vero che il ceto medio è diventato ormai una razza in estinzione quanto la foca monaca e la proletarizzazione ha fatto passi da giganti, ma si sbaglierebbe a considerare la teoria midcult un vecchio strumento privo di senso. Perché c’è da scommettere che oggi a Macdonald, intellettuale brillante e controcorrente – in una società dove la cultura media ha di fatto finito per coincidere con il kitsch e dove di conseguenza lo snobismo ha cessato di essere un atteggiamento per trasformarsi in una pratica di sopravvivenza – non farebbe fatica a individuare il suo bersaglio nella cultura pop, l’ipocrita pseudocultura tanto lusingata nei salotti dell’odierna, nostrana avanguardia intellettuale…
Luca Giannelli
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