A settembre ho presentato insieme agli autori  I treni non esplodono. Storie della strage di Viareggio edito da Piano B. Leggere questo libro è stata un’esperienza dolorosa, per la vicinanza dei luoghi, per l’approccio che Federico e Ilaria hanno scelto, quasi facendosi da parte perché le voci risuonassero in tutta la loro verità, mettendosi in altre parole al servizio. La vicenda è recente, non ancora risolta, irrisolvibile per chi in quel fuoco ha perso gli affetti più cari. Eppure, e questa è l’unica cosa che mi sento di dire, se questo è prima di tutto un libro che chiede giustizia con la dignità delle storie èanche un coro della speranza. Che ci ricorda che davvero c’è il bene in fondo all’essere umano, quel bene che spinge qualcuno a raccogliere tutti i cani e i gatti sbruciacchiati per la via, qualcun altro a cercare per giorni i resti di un amico risucchiato dentro l’esplosione, una madre a presentarsi agli altri nell’abito migliore per rispetto della gioia di esistere della figlia che non c’è più, qualcun altro a raccogliere ogni memoria,  ogni tributo in una piccola baracca divenuta Casina dei Ricordi, perché i vivi e i morti non sono mai davvero separati ed entrambi hanno bisogno di giustizia.

Francesca Matteoni

 

di Federico Di Vita e Ilaria Giannini

«È successo un casino vai a prendere la telecamera e fai le immagini»

Diego Granzetti, 31 anni

(Operatore video)

Diego Granzetti è un uomo alto, con un sorriso aperto e qualcosa di lieve nei modi che lo fa sembrare più giovane della sua età. Lo incontriamo in un locale davanti al mercato all’ora dell’aperitivo e poco dopo veniamo raggiunti dalla sua compagna e dalla loro bambina. Ci siamo ritagliati un po’ di intimità nella sala sul retro, è la prima volta che accetta di parlare di quella notte: anni prima ci aveva provato ma senza riuscire a mettere in ordine le idee. Dal 2009 a oggi per Diego Granzetti sono cambiate molte cose: ha lasciato Viareggio per andare a vivere nell’entroterra, verso Lucca, di là dal Monte Quiesa, inoltre è diventato padre. In via Ponchielli non torna più, ogni tanto la occhieggia dal finestrino, quando arriva in treno.

Il 29 giugno ero uscito con la mia ex compagna e stavamo litigando di brutto. Non ci vedevamo da tantissimo, eravamo a cena fuori a Pietrasanta, dov’è l’inceneritore, verso la capannina del Pollino. Avevamo appena finito di mangiare e stavamo in macchina per tornare a Viareggio quando scoppia una lite furibonda. In auto continuiamo a urlare, offese, un casino. Abbastanza passionale come storia. E c’ho questa immagine che non scorderò mai per tutta la vita, quando stavamo riappacificandoci, in un secondo momento, c’era ancora tensione, lei mi si siede sulle ginocchia e io con la macchina ferma guardo fuori, avevo il parabrezza davanti, la macchina era puntata da Pietrasanta verso Viareggio. Mentre parlavamo vedo come un’alba: tre bagliori e poi un chiarore enorme. E rimango sbalordito. Fermo. Capisco subito che è qualcosa di inimmaginabile. Il litigio passa in secondo piano e le dico: partiamo. Faccio la parallela dell’Aurelia – via Macchia Monteggiorini – a una velocità folle, roba da sbandare in curva. Sono abituato a guidare forte perché per il lavoro che faccio sono sempre in autostrada e cerco di arrivare a casa prima, è un po’ incosciente, però… Il limite era a 50 e io penso di aver fatto anche 120 sui drittoni, c’ho messo meno di 10 minuti. Sono arrivato nella via del Fortino, tra Lido e Viareggio, dove c’è il ponte, lì vedo le fiamme. Sapevo che erano a Viareggio ma non pensavo potessero arrivare… vedevo gli alberi della pineta e poi, sopra, le fiamme.

Quando sono partito da Pietrasanta credevo che l’unica cosa che potesse aver provocato quel chiarore fosse al porto, immaginavo una nave, anche se non abbiamo un porto grande come Livorno che gestisce i gas e queste cose qua. Non pensavo davvero che un treno – come dice sempre la Rombi – potesse esplodere.

Quando da quel ponte vidi le fiamme capii che era qualcosa verso l’interno, non sapevo bene dove, e allora mi viene in mente che al bowling, al vecchio bowling, c’è un ponte da cui magari avrei avuto una visuale migliore. Quando arrivo in zona inizio a vedere tutte le macchine parcheggiate in doppia fila, forse anche qualche sirena lampeggiante, sarà passato nemmeno un quarto d’ora.

Tiro dritto e posteggio dietro i Vigili del Fuoco. Mi saluto con la mia ex che mi dice di lasciar perdere. Ma era impossibile, qualcosa mi spingeva ad andare.

Passo dallo studio e prendo la telecamera, dietro non avevo niente.

Una sfiga assurda è stata che il mio collega non aveva messo in carica le batterie, non trovavo la camera, non trovavo le cassette, non trovavo niente. Avevo il panico addosso e iniziavo a sentire delle grida, prendo l’unica batteria che trovo mezza carica, afferro un nastro e parto. Di corsa ritorno verso i vigili, passando da dietro.

Vado verso via Ponchielli e vedo tutti questi alberi anneriti, però la cosa che proprio mi colpisce è la cisterna enorme di un tir che aveva preso fuoco. Lì dico: ma vaffanculo, ma guarda che cazzo è. Non so perché ma pensai che fosse stato questo enorme tir ad aver scatenato il tutto[1]. Inizio a far delle immagini, ma riprendendo mi resi conto che qualcosa non quadrava. Di ambulanze ne erano arrivate forse due, la polizia non c’era…

Via Ponchielli era sempre aperta, fino alle 3 potevi fare quello che ti pareva[2], ci potevi entrare con un carrarmato, era anarchia pura, la gente gridava. A quel punto capisco che c’è qualcosa di più grande. Quindi sempre di corsa – andavo sempre di corsa, forse ero nervoso, avevo questa adrenalina – vado sull’Aurelia ed entro in via Ponchielli da dietro. [Fa una lunga pausa] La prima scena che vedo è qualcuno che portava via un vecchietto in vestaglia, sapevo che era il Cappelli, aveva uno studio dove aggiustava cose d’epoca, tra l’altro aveva delle rarità enormi nell’ambito della fonica, un tecnico vecchissimo, avrà settant’anni.

Naturalmente lo vedo attraverso la camera, la scena la vedo in un totalino: ci sono le persone che vengono portate via e tutto il resto scuro. Macchine esplose, tutto nero, acqua in terra, non so dirti quanti vigili correvano, poi vedo delle fiamme enormi dalla parte opposta, dove c’erano la passerella e il parcheggio del dopolavoro ferroviario.

Ero talmente nel pallone da non sapere dove mi trovavo, non so perché ma credevo di essere dall’altra parte delle rotaie, tanto che quando ho telefonato al mio collega per dirgli di raggiungermi con un’altra telecamera gli ho dato delle indicazioni totalmente errate, gli ho detto di essere dalla parte della Stazione, verso la Superal.

Io non è che Viareggio la conosco bene, di più, ci son nato e cresciuto: ero completamente andato fuori di testa, non connettevo bene.

Mentre ero al telefono arriva un vigile del fuoco che mi strattona e mi fa oh, digli ai tuoi colleghi… – ma in modo irruentissimo – sono delle teste di cazzo, lo vedi che ne è esplosa mezza, ne è esplosa una e basta, se esplodono le altre siamo tutti morti.

Allora mi giro, guardo i binari e vedo queste fiammate enormi, stavano prendendo fuoco le macchine che erano parcheggiate di là, era tutto nero e le fiamme illuminavano in controluce le sagome delle cisterne. Lì ho capito. E sono rimasto così. Lui mi diceva c’hanno le infradito, i tuoi colleghi sono venuti in ciabatte. Ho pensato che fossero di Rete Versilia, hanno saputo che era successo qualcosa e sono partiti così come stavano, in calzoncini.

Per prima cosa mi tiro nei binari e vado vicino alle cisterne, inizio a vedere delle persone, indossavano quelle divise tipo Anas, arancioni, con delle luci controllavano per terra, non so che facessero. La vampata aveva annerito tutto, aveva distrutto le macchine ma non credevo avesse fatto dei danni, non credevo assolutamente ci fossero dei morti. Ricordo un discorso, si diceva ci saranno forse due morti, non pensavo a quest’impatto impressionante.

In fondo alla passerella, dov’era l’unico parcheggio a strisce bianche di Viareggio –  sempre affollatissimo – c’erano delle macchine che avevano preso fuoco da cui partivano fiammate di venti metri.

Ho attraversato i binari fino alla Croce Verde, poi sono tornato indietro perché ho capito che il grosso era dall’altra parte. Sono passato vicino alla Stazione e ho visto i sassi dei binari tutti sdraiati sulle banchine: una distesa di sassi.

Torno in via Ponchielli, l’attraverso tutta, l’asfalto fumava, una roba apocalittica che vedi solo nei film.

Era tutto distrutto. La cosa più allucinante era l’interno delle case, quelle che ora non ci sono più: erano nere, era scoppiato tutto. Erano scoppiati i mattoni che tenevano il muro in piedi, erano esplosi dal calore, le pentole si erano fuse.

Alcuni pezzi invece… mi ricordo un poster di Eros Ramazzotti, un poster, la cosa più effimera del mondo, attaccato a una parete, sano.

Ho visto delle scene che non mi scorderò mai nella vita. Ho visto una di quelle bacinelle dove mia mamma mi lavava da piccino, di quelle blu, ci vedo infilato dentro un uomo di 50 anni, nudo. Con le braccia e le gambe fuori, era vivo. Sicuramente qualcuno l’aveva tirata per strada… tutte queste cose non le ho filmate però.

Erano già arrivate le prime ambulanze, forse della Misericordia di Lucca, qualcuno mi dice che in una casa erano morti due bimbi. Vado verso un edificio crollato e vedo il nonno di questa famiglia che girava come uno zombie. Mi hanno detto che era il nonno dei Piagentini, una figura alta, sulla sessantina, tutti lo guardavano, era sicuramente un familiare.

Sulla strada da lì in poi – l’uomo nella bacinella era davanti al gommista, al Passaglia[3] – c’era una distesa di quei lenzuoli termici che mettono quando sei gravemente ustionato, con della gente sopra. Magari stavano aspettando un altro viaggio delle ambulanze, non lo so. Ce n’erano già molte ferme e chiuse, stavano prestando i primi soccorsi. Da quella notte in poi quando sento un’ambulanza – non pensavo mai di poter fare un discorso del genere – penso a quelle sirene e al 29 di giugno.

C’era gente che andava e veniva, curiosi, qualcuno fotografava. Miei colleghi che non hanno rispetto di nessuno, andavano dai feriti e gli piazzavano la camera a tutto grandangolo davanti – senza entrare in polemica, son cose che ho visto. Miei colleghi non credo professionisti, tra l’altro. Tante cose penso di averle rimosse. Non ricordo molto altro.

Sono stato lì per due giorni credo, non ho mai dormito. Non ho dormito la mattina dopo perché verso le 6 ha cominciato a squillare il cellulare per le aziende per cui lavoro, poi ho iniziato a fare un servizio per il Tg3 nazionale. Non ho smesso di lavorare fino al giorno dopo, quando è arrivato Berlusconi. Le immagini che ha usato Sky erano le mie, non era neanche tantissimo, avrò girato una quarantina di minuti, perché combattevo continuamente con questa cazzo di camera che non mi stava accesa, quindi nell’assurdità, nella tragedia, poi ti confronti con piccoli problemi del cavolo.

Credo di avere un istinto per queste cose, per via del mio lavoro, però non mi era mai successo niente del genere. Quella sera il caso ha voluto che ci sia stato un incidente a due passi dallo studio dove ho sempre lavorato, avevo l’attrezzatura lì e il cervello ha fatto uno più uno.

Le immagini non le ho più riguardate. Non le guardo e non passo più da via Ponchielli. Mi ricordo un sentimento fortissimo: dal secondo giorno volevo pensare ad altro. Forse era una cosa per salvaguardarmi, un senso di rifiuto.

Quando ho iniziato questo lavoro a Rete Versilia ho beccato gente morta in autostrada, impiccati, persone che si son tirate sotto il treno, li ho visti faccia a faccia. Il primo incidente che ho visto erano quattro morti e non ho mangiato carne per una settimana. Ti viene il disgusto. Però il magone più grosso che ho provato nella mia vita è stato intervistare la Rombi.

Ho fatto tre interviste a Daniela Rombi, tra cui l’ultima in via Ponchielli, dove non volevo andare – e anche lei mi ha detto che non ci va mai – era per La7, volevo andare a casa e, non lo so. In assoluto se qualcuno mi chiedesse qual è tra le persone che ho intervistato quella che mi ha massacrato di più, è stata lei. Perché parla con freddezza, non con la pietà che ti aspetti da una a cui è morta una figlia. Sì, ce l’ha la pietà, ma è anche pragmatica, dirompente, quando racconta. Penso di aver pianto insieme all’assistente. Forse perché ricordo sua figlia al vecchio Cro[4], la sera.

Non posso dire di aver conosciuto Emanuela, però sapevo chi era, la vedevo. Magari si era tre stupidi al Cro il martedì sera, mi ricordo lei e Sara, non la conoscevo ma a Viareggio siamo in dieci, se ti vedo una sera al Cro, la sera dopo al Cro e siamo i soliti tre, insomma, mi ricordo di te. Poi aveva dei lineamenti molto particolari, le vedevo al Sars[5], in altre situazioni anche, non ci siamo mai salutati ma quando poi ho visto le foto…

* * *

Voglio raccontarvi di una cosa che è stata ritrovata, si parla di una macchina, la cosa più stupida del mondo. A me fa ridere perché conosco il proprietario. La mattina del 30 giugno per lavorare mi danno come assistente Carlo, un vecchio fonico di sessant’anni. Ci incontriamo alle 6 di mattina al piazzale della Stazione e lui ha una faccia sconvolta.

Carlo ha due passioni, le armi – è un collezionista – ma non lo devi vedere come un Rocky, è un sessantenne, single, come ti posso dire, appassionato di armi, soprattutto storiche, dalla balestra…  ne possiede un sacco. E di macchine, adora le macchine. Di recente aveva comprato una Porsche d’epoca, bellissima, anni ’70 o ’80. Qualche giorno prima sua sorella l’aveva tamponato facendo retromarcia e lui aveva portato la macchina nell’autofficina di via Ponchielli.

Passiamo tutto il giorno insieme, era un uomo distrutto. Ci teneva a questa auto, ci parlava. Il giorno dopo io proseguo da solo, per la prima volta fanno un cordone stampa e ci fanno entrare dentro via Ponchielli: non ti potevi fermare assolutamente, c’era un piantone all’inizio e uno alla fine, te proseguivi, facevi immagini, ti fermavi un secondo e andavi avanti. Perché era pericoloso, non si poteva sostare.

A un certo punto lato monte, passo, guardo il forno dell’autofficina: distrutto. Pensavo alla macchina di Carlo, poveraccio. Mi giro, guardo dentro l’autosalone e mi sembra di vedere una Peugeot sfondata e dietro questa una fila di macchine bruciate, e in fondo c’era la sua: intonsa. Pigio REC alla camera, il giornalista vede che mi stavo veramente facendo i cazzi miei in quel momento lì, dovevo fare altre robe, gente che lavorava, macerie, non mi importava una sega, volevo fare quella macchina lì.

Rendetevi conto che dall’inizio alla fine io ci dovevo mettere cinque minuti, era quello il tempo che avevamo, ne ho passati tre chiamando Carlo.
Carlo, c’è la tu’ macchina!
Non mi prendere per il culo Diego.
Ti giuro Carlo è la tu’ macchina, è nòva, è intonsa! Te l’ho filmata, te la mando sul Tg3.
Prendo il giornalista e gli faccio: oh queste immagini qui vanno in onda stasera, quella macchina ce la devi mettere. Non lo so se è andata, però Carlo la sera m’ha chiamato, era felicissimo.

******

[1]    Era il tir guidato dal camionista polacco Malek Marcin, che aveva parcheggiato davanti ai giardinetti di via Ponchielli e si era addormentato. L’uomo di 38 anni, rimasto gravemente ustionato nell’esplosione, è stato curato al centro grandi ustionati dell’ospedale Cto di Torino e si è salvato.
[2]    Diego è giunto sul luogo dell’esplosione dopo circa mezz’ora, quindi alle 00:30, probabilmente in quel momento in via Ponchielli non erano ancora arrivate le forze dell’ordine che poi hanno impedito l’accesso alla zona.
[3]    Fulvio Passaglia è un gommista che si trova a poche decine di metri dal luogo della strage, all’incrocio tra largo Risorgimento – la parallela di via Ponchielli – e via Porta Pietrasanta. Il negozio, forse grazie alle vistose lettere gialle dell’insegna, è preso da molti come punto di riferimento.
[4]    Il Circolo ricreativo operaio di Viareggio, che si trova in Darsena, in via Coppino.
[5]    Un centro sociale in Darsena, vicino alla piscina comunale.

 

 

Postfazione

Una sera di qualche ottobre fa, quando già avevamo iniziato da tempo a lavorare a questo libro, un amico di Firenze mi domandò come mi era venuto in mente di imbarcarmi in un’impresa di tale portata. Mi chiese un semplice perché e io, che avevo scritto due romanzi e professavo una letteratura il più libera possibile dai vincoli della realtà, scrollai le spalle e non seppi cosa rispondere.
Era la stessa questione che mi era risuonata così spesso nella mente, quando dovevo alzare il telefono o scrivere una email per fissare un’intervista, quando varcavo la soglia delle case di chi aveva perso gli affetti più cari o affrontato le ustioni: ogni volta mi chiedevo come avevo fatto a ritrovarmi invischiata nelle vite degli altri. Dove nasceva la spinta con cui mi ero arrogata il diritto di raccogliere le loro storie, che sicuramente meritavano di essere raccontate, ma perché io, perché noi, perché in questa forma?
Per darmi una spiegazione posso solo tornare a quel 29 giugno che per i versiliesi fu un vero spartiacque, uno di quei momenti di coscienza e storia collettiva che frantumano come terremoti l’orizzonte piatto della vita, tanto che tutti noi conserviamo una personale versione di quella notte impressa nella memoria.
Persino io, che abitavo a Firenze e avevo lasciato ormai da otto anni il paese del Comune di Massarosa dove sono cresciuta, fui raggiunta in tempo reale dalla notizia come se non mi fossi mai spostata da lì. Era passata da un minuto la mezzanotte e stavo leggendo in pigiama quando il cellulare si mise a suonare: era mio fratello minore, rientrato proprio quel giorno da una vacanza negli Stati Uniti. Ci telefoniamo di rado e visto l’orario sentii due dita di panico piantarsi in gola. Tutto bene?
Io sto bene ma sono in Darsena, è scoppiato qualcosa, ci sono delle fiamme altissime, stiamo andando a vedere cosa è successo, guarda se su internet dicono qualcosa.
Mi precipitai al computer ma ancora non c’era traccia del disastro, solo a mezzanotte e un quarto cominciarono a trapelare le prime, confuse notizie, che diventavano di ora in ora sempre più gravi.
Dormii male e mi svegliai convinta di stare ancora sognando: partii per Viareggio per raccontare quello che era successo sul giornale online per cui lavoro. Io e il cameraman raggiungemmo in macchina la città e parcheggiammo nei pressi della Torre Matilde. La sensazione di irrealtà era fortissima: il cavalcavia che sovrasta i binari era chiuso e presidiato dalla polizia, la Croce Verde era devastata dal fuoco, le strade ingombre di carcasse di auto incenerite, via Ponchielli ridotta a un buco nero.
Questa era la città dove avevo frequentato cinque anni di liceo classico, queste le strade che avevo percorso milioni di volte con lo scooter per andare al mare o a ballare in discoteca, dove avevo passeggiato per mano alle mie prime cotte. Viareggio, la città che più avevo amato tra quelle dove mi ero ritrovata a vivere, il paese del Carnevale e dell’adolescenza eterna, era irriconoscibile.
Ricordo quella giornata come una bolla impastata di sonno; mi muovevo al rallentatore e ancora più lentamente mi sembrava si muovessero quelli intorno a me: gli sfollati rimasti senza casa alloggiati nel campo provvisorio davanti al Comune, i volontari che sudavano nelle divise, i tantissimi viareggini che si erano trascinati in piazza Nieri e Paolini per ritrovare amici e parenti, contarsi a vicenda, toccarsi il viso e le mani, assicurarsi di essere ancora vivi.
Facevo interviste e pensavo all’Abruzzo colpito dal terremoto, che sempre per lavoro avevo visitato qualche settimana prima: adesso toccava a me provare lo stordimento della terra che ti cambia sotto i piedi, questo era il mio turno di incontrare vecchi compagni e conoscenti sconvolti e inorriditi, di essere travolta dalla rabbia del popolo esplosa all’arrivo della politica nazionale in pompa magna.
Viareggio toccava a me e mi toccava da vicino: nei mesi dopo, negli anni successivi, non avrei mai smesso di figurarmi l’attimo esatto in cui il convoglio aveva perso la sua traiettoria, l’istante prima che quelle vite venissero deviate per sempre, diventassero qualcos’altro. L’ultimo minuto in cui tutto era stato come doveva essere.
L’avrei immaginato, avrei ricordato e sempre, tornando a casa in treno, avrei cercato con lo sguardo quel che mancava in via Ponchielli.
Così ho iniziato a desiderare che altri insieme a me conoscessero e ricordassero, non solo chi perse la vita in un incidente che poteva essere evitato ma tutte quelle esistenze che sono cambiate alle 23.48 del 29 giugno 2009. Tutti i volti, le voci, le storie che dopo pochi mesi appena erano state spazzate via dalla velocità della cronaca, dall’oblio della modernità, dalla difficoltà di accettare che quel lunedì d’inizio estate a Viareggio trentadue persone erano morte nelle loro case, nei loro letti, nei loro giardini, nelle loro macchine, nei loro cortili.

Ho saputo del disastro ferroviario di Viareggio dalla televisione. Sullo schermo c’erano immagini di enormi fiamme lontane, e molto caos. Doveva trattarsi dell’edizione speciale di un telegiornale: rimasi come ipnotizzato dalla tragedia che colpiva una città di cui non sapevo praticamente nulla. A Roma era una serata afosa, rientravo da un giro in motorino fatto col solo scopo di farmi rinfrescare dal vento. Doveva far caldo anche a Viareggio perché molte delle vittime avevano le finestre aperte, da lì erano entrati il gas e la vampata di fuoco. Questo particolare è stato chiaro sin da subito? Non lo so. Continuavo a guardare le immagini correre in loop nel rettangolo del televisore, le prime coperture erano parziali. Era già evidente che il numero dei morti era destinato a crescere di ora in ora. L’ingiustizia a volte assume forme cariche di magnetismo. Continuavo a fissare il video, ero solo e in ogni caso non avrei avuto niente da dire. Non ne ho parlato nemmeno nei giorni successivi, fedele al precetto che i soli ad avere il diritto di esprimersi sono i familiari delle vittime, se ne ha voglia qualcuno degli amici.
Viste le responsabilità che sin da subito istintivamente imputai a Trenitalia (se in città deraglia ed esplode un treno che trasporta Gpl, di chi può essere la colpa?), immaginai le facce unte dei politici planare su Viareggio e l’infinito chiacchiericcio che si sarebbe fatto di tutto ciò.
Poi passarono mesi e anni. Incontrai Ilaria, che è di quella zona, e che mi parlò della strage – la chiamava proprio così, la strage. Sapevi che gli abitanti di via Ponchielli avevano firmato una petizione per chiedere la costruzione di un muro che separasse la strada dalla ferrovia?
Non sapevo niente. Me ne parlò altre volte, poi altre ancora. Avevo sbagliato a pensare che ne avrei sentito discutere a lungo: passati i primi giorni i mezzi di informazione nazionali non se ne sarebbero occupati più. Nonostante le presunte responsabilità di Trenitalia. Nonostante il processo che finalmente si cominciava a celebrare. A Roma era passato in sordina ma, come ho avuto modo di constatare, anche a Firenze, dove nel frattempo mi ero trasferito, nessuno sembrava curarsene. Il silenzio ribadiva il dominio dell’ingiustizia. A forza di sentir parlare della strage di Viareggio, in contrasto col distratto oblìo in cui andava sprofondando, ho finito per prendere a cuore la vicenda. Ilaria qualche volta mi accennò di aver pensato, in passato, di volerne scrivere ma di non aver mai cominciato. Adesso a informare le persone con cui tiravamo fuori il discorso eravamo noi.
Sua madre fa parte sin dall’inizio di uno dei comitati nati in seguito a quella notte. Avevamo informazioni di prima mano e un canale per entrare in contatto con molte delle persone coinvolte. A un certo punto ci fu chiaro che il modo migliore di indagare le circostanze della strage di Viareggio era lasciar esprimere chi le aveva vissute in prima persona. Per questo abbiamo incontrato chi ha avuto il destino di trovarsi quella notte a lato dei binari. Ci interessava ascoltare le storie dalla viva voce di chi le aveva vissute. Ci ritrovavamo in un bar, o alla Stazione, o in casa del testimone con cui avevamo appuntamento. Accendevamo il registratore, lo mettevamo su un tavolo e lasciavamo che la conversazione prendesse il suo corso. A volte questi incontri sono durati anche due ore. La verità emersa dalle parole di chi ha vissuto quella sera sarebbe stata diversa da quella pronunciata nelle aule del tribunale, indipendentemente dall’esito giudiziario. Volevamo dare spazio a questi racconti e all’unicità di chi li ha vissuti, fare in modo che si smettesse di considerare le vittime come numeri.
In alcuni casi, come per i macchinisti, siamo andati al Polo fieristico di Lucca dove viene celebrato un processo troppo grande per entrare nelle strette aule del tribunale cittadino. Abbiamo raccolto così le deposizioni di alcuni testimoni chiave che ci sarebbe stato impossibile raggiungere diversamente.
La lavorazione del libro è durata più di tre anni, la distanza delle testimonianze rispetto alla notte del 29 giugno varia da tre a cinque anni. Tra quelli che abbiamo intervistato c’è chi ha avuto molte occasioni di parlare, anche pubblicamente, della propria esperienza, altri invece accettavano per la prima volta di farlo – fino ad allora avevano preferito non tornare su quei momenti. Per la stessa ragione alcuni hanno scelto di declinare il nostro invito.