I treni non esplodono di Ilaria Giannini e Federico Di Vita (Piano B 2016) racconta una storia accaduta poco più di 7 anni fa: alle 23.48 del 29 giugno 2009, il treno merci 50325 Trecate-Gricignano, che trasporta quattordici vagoni-cisterna carichi di Gpl, deraglia 400 metri dopo aver superato la stazione di Viareggio. Dei quattordici vagoni se ne squarcia soltanto uno, ma basta per annichilire la passerella che proprio in quel punto congiunge le due parti della città, devastare l’area adiacente a via Ponchielli e via Porta Pietrasanta, e danneggiare gravemente la sede della Croce Verde sul lato opposto.
Le vittime sono trentadue: undici muoiono a causa dell’esplosione; ventuno per le conseguenze delle ustioni riportate. Su un centinaio di persone resteranno i segni tangibili di quella deflagrazione. Per chi non lo sa, morire o guarire di ustioni è una delle forme di sofferenza più atroci che si possano immaginare: giorni, settimane, mesi di dolore continuo, diffuso, con la morfina che non basta mai. Il corpo è privo della sua protezione primaria, viene bendato e sbendato ogni giorno, la pelle si stacca via e bisogna fare innesti con quella dei cadaveri per favorire l’attecchimento e la rinascita di nuovo tessuto; basta un nonnulla per scatenare un’infezione fatale.
Che sia chiaro: il motivo per cui descrivo ciò che devono sopportare i grandi ustionati prescinde dal gusto morboso per il particolare. La ragione è che in apparenza tutta questa vicenda e tutto questo dolore sembrano un tragico incidente, per cui parlarne servirebbe soprattutto a ricordare chi ha sofferto e le famiglie di coloro che non ci sono più. E invece la storia delle vicende che conducono ai fatti e quella dei fatti che sorgono da certe vicende non sempre coincidono: da una parte c’è un treno merci che deraglia, l’assile che cede, il vagone che si piega, l’indicatore della curvatura dei binari — un’asta metallica di norma presente su ogni curva ferroviaria — che proprio in quel punto perfora e trancia il rivestimento della cisterna, il gas propano liquido che si fa gassoso in presenza dell’atmosfera, spargendosi a macchia d’olio sui binari fino a insinuarsi lungo le strade antistanti e sotto le porte delle case per esplodere al primo innesco: basta una scintilla, è gas.
Dall’altra, ci sono le ragioni del profitto, i bilanci, i capitoli delle spese, gli investimenti sulla sicurezza, i tagli e l’analisi costi-benefici. Il groviglio è esattamente questo: una questione di definizione. Come si può chiamare incidente il risultato di una serie di fattori concatenati fra di loro. Parlare di effetto, esito, risultato o conseguenza sembrerebbe più corretto. Alcuni dicono che poteva andare peggio, ma anche questa frase è ingiusta, perché peggio di così non poteva andare. Peggio di così vanno le cose che succedono per caso, che per qualche motivo sarebbero potute non succedere.
Per questo serve anche sottolineare quanto e come si soffra: perché la strage di Viareggio non sarebbe dovuta accadere, e la differenza sta proprio nell’uso di un verbo al posto di un altro. Comincio a snocciolare dati: «[…] secondo le analisi effettuate dai periti incaricati dalla Procura di Lucca, l’assile 98331 quella notte si spezzò per una frattura causata dalla ruggine, che sarebbe dovuta saltar fuori nel corso di una normale manutenzione. Non siamo di fronte a un difetto di fabbricazione, altrimenti il pezzo non avrebbe retto trentacinque anni – visto che fu fabbricato nel 1974 in uno stabilimento di Babelsberg, nell’allora Repubblica Democratica Tedesca».
Continuo: « L’assile – di proprietà del colosso statunitense GATX, che solo in Europa possiede 20.000 carrozze – era stato sottoposto a manutenzione appena sette mesi prima, nel novembre del 2008, nell’Officina Junghental di Hannover. Perché non trovarono la cricca? Secondo i tecnici all’epoca la frattura doveva essere già abbastanza estesa: se l’asse fosse stato sverniciato e sabbiato, prima di venire controllato, la corrosione sarebbe risultata visibile a occhio nudo e in ogni caso non sarebbe potuta sfuggire a un esame a ultrasuoni». Ancora: «Nel febbraio 2009 il carro-cisterna era passato anche dall’Officina Cima di Bozzolo (Mantova), che si limitò a montare il pezzo, ancora una volta senza controllarlo con gli ultrasuoni: questa revisione, datata 2 marzo 2009, fu l’ultima occasione per togliere dalle rotaie un vagone ormai compromesso».
Si palesa in queste poche righe tratte dal capitolo finale del libro, intitolato Era come se i treni ci volessero avvertire, un sistema complesso di responsabilità che Ilaria Giannini e Federico di Vita ricostruiscono ben consapevoli di una cosa: «Lavorando a questo libro il più grande dei timori in cui ci siamo imbattuti — in grado di insinuarsi tra le pieghe di tutte le conversazioni — è stato la paura delle giustizia». Perché I treni non esplodono si compone di una serie di storie — così le chiamano i due autori, capaci di costruire una vera e propria narrazione collegando logicamente inchiesta e testimonianza — che conducono a quell’unico risultato rivelato sin dall’inizio: l’esplosione.
E sembra incredibile che si debba passare attraverso tanto dolore e tanta incredulità per arrivare a capire che chi lo chiama incidente e non strage è colpevole anche senza volerlo. Alla giustizia, quella che è uguale per tutti ma che fa pur paura, spetta il dovere di sancire chi siano i veri responsabili, anche di fronte a un uso corretto dei termini. Un processo è in corso, ma rischia la prescrizione. Pur tuttavia, c’è un questione ancora più importante che va al di là del corso della giustizia: è la ragione che spetta soltanto alle vittime, inviolabile e incontrovertibile: «A me non mi può dire nulla nessuno — dice Daniela Rombi, presidente dell’associazione Il mondo che vorrei e madre di Emanuela Menichetti, deceduta nel Reparto Grandi Ustionati di Cisanello, Pisa, a 21 anni —, perché comunque ho sempre ragione io. Io una figliola non ce l’ho più, quindi tutto il resto non mi interessa. Non ho avuto remore a dire quello che pensavo a nessuno, né al presidente della Regione, tantomeno al sindaco – figuriamoci. Ho trovato anche la maniera di parlare col presidente della Repubblica, nel 2011 all’Aquila, mi volevano fermare ma non l’hanno fatto perché hanno visto che altrimenti sarebbe successo del casino. Al presidente dissi due cose, la prima era perché avesse fatto cavaliere Moretti [Mauro Moretti, allora amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, ndr]. E stette zitto. Poi, era il 6 aprile, gli dissi che non doveva far passare la legge sul processo breve, rispose ma lei lo sa che io non posso intervenire. So che non può intervenire ma deve vigilare, guai se dovesse passare perché L’Aquila e Viareggio lo vogliono il processo, e lo devono avere».
Ancora il verbo dovere che fa la differenza.
Diego Bertelli
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