Tutti sappiamo chi è Virginia Woolf. Conosciamo alcune informazioni su di lei che di tanto in tanto ci fanno comodo per ostentare la nostra erudizione. Era inglese, profondamente e intimamente femminista; è ricordata per il Bloomsbury Group, grazie al quale conobbe il marito, Leonard Woolf. Il suo stile affilato e scivoloso riecheggia il flusso di coscienza di James Joyce e, ahinoi, mise fine alla sua vita suicidandosi. Questi tuttavia sono solo elementi che fanno da cornice alla personalità debordante di Virginia Woolf, una donna guidata da un’atavica passione per l’esistenza e una tale forza di volontà che si riversa sulla prosa per dare la caccia all’animo umano.

Gli elementi si ritrovano nella breve, ma intensa, raccolta Sono una snob? e altri saggi (traduzione di Antonio Tozzi, Piano B Edizioni, pp. 112, € 10,00) che fanno comprendere appieno la natura dell’autrice.

La Woolf nasce nel 1882 da sir Leslie Stephen, storico e letterato, e Julia Prinsep Stephen, nata a Calcutta, dove il padre esercitava la professione di medico, e famosa per essere stata una modella dei Pre-Raffaelliti. Aveva un rapporto molto intimo con la madre, un legame viscerale a doppio filo, talmente importante che, quando Julia scompare prematuramente nel 1895 – l’autrice all’epoca ha soli tredici anni –, Virginia tenta di annodarne il ricordo per poi slegarlo immediatamente dopo, quasi fosse un sentimento di odi et amo, perché scopre dettagli della vita della madre che la turbano.

Virginia non sopporta che il primo matrimonio di Julia sia descritto da chiunque come il legame  “dell’amore”, a differenza delle seconde nozze “del lutto” con Stephen, suo padre. Detesta anche che consideri i figli maschi dei veri e propri semidei, mandati a studiare a Cambridge, mentre le figlie siano deputate alla casa e alla cura del prossimo. Ma dopo la sua morte inizia a cercarla in ogni anfratto di Talland House, la casa sul mare a St. Ives, in Cornovaglia, dove la famiglia trascorreva ogni estate; insegue il suo fantasma nei dettagli, nei gesti e nelle ombre, tanto da plasmare il personaggio della Signora Ramsey di Gita al faro a sua immagine e somiglianza, facendole indossare i tre anelli che Julia esibiva quotidianamente.

Virginia è legata invece da un’affinità intellettiva al padre, uomo erudita che aveva sposato in prime nozze Minnie Thackeray, figlia del William de La fiera della vanità. Un senso di ammirazione e adorazione le mostra il padre come il simulacro che incarna il destino che vuole possedere e cavalcare, come scrive perfettamente nel saggio Una stanza tutta per sé, pubblicato nel 1929, quando si chiede «Come mai […] le donne sono infinitamente più interessanti per gli uomini di quanto questi non lo siano per le donne?» [1]. In realtà, il padre era un personaggio discordante, tanto erudito quanto chiuso al cambiamento: volitivo con la madre di Virginia e così puritano da disprezzare l’emancipazione sociale delle donne e firmare una petizione contro il suffragio femminile. Dopo la morte di entrambi i genitori la casa al numero 22 di Hyde Gate Park viene venduta e Virginia si trasferisce con i fratelli a Bloomsbury.

La particolarità di Virginia si riconosce fin dal primo scritto, pubblicato nel 1915, dal titolo The voyage out. Forgia mondi e personaggi affinati da parole che derivano da una spinta creatrice luttuosa, perché riesce a plasmare a tutto tondo luoghi e personaggi solo se abbandonati o morti. Virginia, infatti, vivrà sempre con un’ombra lugubre avvinghiata alla sua anima, in netto contrasto con la passione viscerale per l’esistenza insita in lei e la volontà di indagare con le parole l’abisso dell’animo umano.

Ecco che allora i saggi come la raccolta Sono una snob?, alla stregua dei diari privati, diventano l’unico modo per noi lettori di scalfire e svelare l’animo dell’autrice stessa. I saggi sono una forma di autobiografia, lei che non ne ha mai scritta una di suo pugno: ogni pagina è un tassello che si incastra perfettamente alle altre per dare vita lentamente alla sua figura magnetica.

Otto brevi e profondi scritti che rispecchiano il suo stile e che sono molto interessanti perché elaborati in epoche tra loro diverse, specchio dell’evoluzione intellettuale e creativa della Woolf. Il saggio A zonzo per le vie di Londra, apparso per la prima volta sulla Yale Review nell’ottobre del 1927, ne è un esempio lampante. Siamo nel pieno della fase creativa dell’autrice: il 1925, infatti,  ha visto la pubblicazione del suo quarto romanzo, Mrs. Dalloway, in cui troviamo tutti gli elementi che diventeranno parte integrante della sua poetica. Il monologo interiore, il femminismo, le malattie mentali e l’omosessualità sono inseriti in un contesto storico-sociale post prima guerra mondiale, un momento in cui tutte le visioni, i valori, il credo degli esseri umani si sbriciolarono in mille pezzi dando vita a una nuova concezione del mondo e dell’uomo non più invincibile.

«Quando [la natura] si accingeva a creare il suo più grande capolavoro, la creazione dell’uomo, avrebbe dovuto pensare a una sola cosa. Invece, volgendo il capo, guardando da un’altra parte, lasciò che entrassero in ognuno di noi istinti e desideri che sono totalmente in conflitto con il nostro essere primario. […] O forse la nostra vera personalità non è né questa né quella, né qui né là, ma qualcosa di così vario e vagabondo che soltanto quando diamo libero sfogo ai suoi desideri e le permettiamo di fare ciò che vuole senza alcun freno, siamo finalmente noi stessi?» (p. 45).

Gli anni della leggerezza e degli scandali del Bloomsbury Group sono ormai alle spalle, anni in cui la residenza era un andirivieni di artisti, letterati e uomini di cultura di ogni genere. A casa sostavano Lytton Strachey, Leonard Woolf – che sposa nel 1912 –, Clive Bell e Roger Fry, che organizzò la prima mostra di dipinti Post-Impressionisti alle Grafton Galleries nel 1910, tra i quali c’era I girasoli di Van Gogh.

Le beffe, gli scherzi – famoso quello denominato Dreadnought, in cui il gruppo di amici si finse una delegazione etiope e si introdusse nella suddetta nave da battaglia, facendosi accogliere dall’ammiraglio in persona – non plasmano tanto la mente di Virginia, quanto la sua concezione di libertà. Grazie al gruppo iniziò a pensare fuori dagli schemi e prese in mano la penna per scrivere quello che voleva e quando voleva, rivendicando una libertà ancestrale non solo per lei, ma al contempo per le donne e per il genere umano stesso.

E lo fece attraverso le parole.«Ci era stato concesso di penetrare un po’ in ognuna di queste vite, abbastanza da lasciarci l’illusione che non siamo incatenati in una mente sola, ma che possiamo assumere brevemente, per qualche minuto, i corpi e le menti degli altri» (p. 53).

Le parole per Virginia sono l’arma che usa per combattere contro le ingiustizie, ma anche contro la malattia, una psicosi maniaco-compulsiva che le attanaglia mente e corpo fin dalla giovinezza, dopo la scomparsa del padre. In quei momenti non riesce a pensare ad altro che alla morte, che non può combattere e che continua a portarle via le persone care. Si sente come una falena che batte le ali come ultimo anelito di vita, per poi spegnersi definitivamente; non a caso, a distanza di anni, scrive Sulla malattia – pubblicato nel gennaio 1926 – e La morte della falena – edito postumo nel 1942

La scrittura può essere salvifica? Può liberare l’animo umano dalle sue pene quando «la letteratura fa del suo meglio per dimostrare che ciò che più le interessa è la mente; […] il corpo non esiste, è trascurabile, non c’è. Invece è vero esattamente il contrario» (p. 73)? Con l’avanzare della guerra e dell’invasione di Hitler sull’Europa, la scrittrice si domanda nei diari «qual è il mio dovere in quanto essere umano? Io, una donna senza pieni diritti e senza istruzione, che responsabilità ho di questo mondo?».

Virginia Woolf si toglie la vita annegandosi il 28 marzo 1941, con il peso dei sassi nelle tasche del cappotto che la portano a fondo. Il corpo viene ritrovato solo il 18 aprile, sfigurato, come a dire «Eh sì, la morte è più forte di me» (p. 109).

Virginia Woolf resterà nella mente dei suoi lettori per la libertà della scrittura, per gli indimenticabili personaggi che animano ancora oggi i suoi romanzi, e per il suo stile sinuoso ed elegante, che dovrebbe essere letto pagina dopo pagina come una poesia in prosa.

Federica Chimenton