Immaginate una sera di nebbia in un bar di una qualsiasi periferia metropolitana. Al tavolo Beppe Viola e Vinicio Capossela tra bicchieri di Vecchia Romagna e scapoli dalle dita sporche di gessi da biliardo e nicotina. Viola vuole convincere Capossela che anche il calcio è un’arte. Basta saperlo raccontare, attenti a non cadere nella trappola della poetica alla Soriano, tutta polvere, tango e palloni marroni. Roba trita, già sentita. I due s’accapigliano, scarabocchiano sottobicchieri di cartone, ordinano un amaro.
Ecco: “Sforbiciate” di Fabrizio Gabrielli (Piano B) potrebbe essere il brogliaccio di questa serata tra racconti e illustrazioni di Maximiliano Chimuris (una qui sopra). Il calcio c’è, ma lo trovi dove e come non te lo aspetti. Storie da outsider, più che da protagonisti. La cavalcata picaresca di Gabrielli, a volte apparentemente sconclusionata, pare cercare di rispondere a una domanda: come (ri)innamorarsi di un mondo sconfitto dai suoi stessi eccessi? Ieri, il calcio aveva una sua epica, una sorta di viaggio dell’eroe che si rinnovava partita dopo partita.
C’erano ruoli precisi, definiti. E ognuno aveva la faccia giusta. Il buono poteva avere la zazzera composta di Rivera e correre ad indovinare il destro decisivo dopo non essere riuscito ad evitare un gol sulla linea. Il cattivo, invece, aveva l’aria da Tupamaro di Goicoechea e passava alla storia perché azzoppava Maradona in bluegrana. Un film western. Nel quale trovavano gloria uomini ruspanti e cervelli svelti, contadini, filosofi, gente da aforisma, insomma. Ora? Tutta un’altra cosa. Pizzaioli diventati procuratori, tatuaggi seriali, tweet coi punti esclamativi, topplayer e championsleague, cuffie giganti negli spogliatoi, esultanze da villaggi turistici.
Un cinepanettone. Uno dovrebbe dimenticarsi di tutto questo per godersi l’eterna magia del pallone che rotola in rete. Dimenticare e ricordare molto altro. O almeno scoprire le storie che Gabrielli racconta mescolando scaramanzie da gitani a tibie senza sponsor, stelle di David baciate dopo una rete e campi polverosi sull’Appia Antica, comunisti catalani e centravanti ossigenati che sbagliano tre rigori in una partita, Salvador Dalì e Django Reinhardt. Un’accolita imprevedibile che sarebbe stata celebrata volentieri da Beppe Viola in tivvù e potrebbe strappare citazioni in una ballata di Capossela. Tutto torna, visto? E gira intorno all’ironia, la chiave di volta per riabbracciare una passione accantonando la sua deriva.
Talvolta basta poco. Tipo puntare sul paradosso a caccia di una terra di mezzo tra tanghi abusati e volgarità da nuovi ricchi e cambiare geografia al conosciuto. Perché queste sforbiciate hanno il loro centro di gravità in Spagna e Sud America e viaggiano tra Kinshasa e Terracina trascurando proprio il Paese deputato alla glorificazione del calcio: il Brasile. Laggiù hanno vinto più di ogni altro, sono nati i talenti più felici e sulle loro imprese e debolezze è stato scritto (da un inglese, per la verità) uno dei libri più belli mai dedicati al pallone (Futebol, di Alex Bellos). Gabrielli se ne frega e si limita a lambire quei confini. Giusto. In fondo, i brasiliani se lo meritano, forse anche il loro è un amore da rivedere. Quando hanno dovuto dare un nome al loro aeroporto più grande hanno pensato a Antonio Carlos Jobim, mica a Garrincha.

Gianluca Monastra

 

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