«Il “rewilding”, a differenza dal conservazionismo, non ha un obiettivo fisso: non è guidato dai gestori umani ma dai processi naturali. Non vi è alcun punto d’arrivo prevedibile». È pronto l’uomo a fare questo salto nell’incertezza, ad affidarsi completamente alla natura senza tornare ad essere preda delle sue paure?
La natura è madre o matrigna? E l’uomo è parte della biosfera o è un virus? Sono le ataviche domande che l’uomo si è sempre fatto e lungo i secoli ha cercato di dare una risposta creando, in verità, più danni che benefici perché al centro c’è sempre lui.
Quando il rapporto fra l’uomo e la natura era a vantaggio di quest’ultima, i «guasti» non davano nell’occhio; ma è stato con l’aumento della popolazione e con la capacità tecnologica che gli interventi umani sono diventati devastanti. A mettere in risalto i danni e a studiare più da vicino gli altri abitanti di questa casa comune, ci ha pensato l’ecologia, una scienza giovanissima, nata nel 1866 grazie allo scienziato tedesco Ernst Haeckel (1834-1919).
Ma neanche con l’avanzare della conoscenza si è stati capaci di rispondere alle domande iniziali. Anzi, più si va avanti nella conoscenza più aumentano i danni. Una sorta di corsa distruttiva che a fatto pensare a qualcuno di stare sulla via dell’estinzione.
Certo, a giudicare dalle specie che si estinguono e, soprattutto, al ritmo con cui ciò avviene non si riesce ad essere molto ottimisti. Se a caccia, pesca e agricoltura aggiungiamo i cambiamenti climatici decisamente ci assale un profondo pessimismo.
Eppure, in tutto questo, si è riusciti a delimitare delle aree, a porre freni e leggi che hanno consentito un rallentamento a questa discesa rovinosa del depauperamento della biosfera. L’imperativo è sembrato la conservazione.
Ma già da anni, silenziosamente, si è fatta strada l’ipotesi di Gaia, già affermata dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979 in «Gaia. A New Look at Life on Earth». L’ipotesi vede il pianeta Terra come un organismo vivente, in grado di vivere anche senza l’uomo. L’associazione vitale esistente fra gli organismi vegetali e quelli animali è in grado di interagire e riportare in vita anche un ambiente apparentemente sterile.
Una spallata al mondo della conservazione o della «gestione» degli ambienti naturali viene ora da un altro inglese, George Monbiot, con «Selvaggi. Il rewilding della terra, del mare e della vita umana», pubblicato nel 2013 e finalmente tradotto in italiano dall’editrice Piano B (in libreria dal 2 febbraio al prezzo di 17,90 euro).
Un libro magistrale e scritto in maniera scientifica. Accattivante nella narrazione e preciso nella terminologia che non ha niente da invidiare ad un testo accademico. Ogni filo d’erba, ogni parte di pianta, ogni animale vengono chiamati con il loro nome. Nulla è lasciato all’approssimazione.
E poi, questa la vera novità, l’uomo non è un passivo osservatore. Monbiot ha fatto una scelta di campo fra la comoda vita della civiltà moderna e l’incertezza della vita selvaggia, e la vive fino in fondo.
Si meraviglia di scoperte improvvise e vive il rapporto primordiale della caccia. Ma non è un cacciatore. Affronta le paure ancora radicate nell’uomo civilizzato e non, in cui le stratificazioni culturali, superstiziose e religiose hanno creato muri fra l’uomo e il mondo naturale. Dalla «bestia» misteriosa che popola le paure dei nostri paesi solo a scorgere un’orma poco familiare alla paura del camaleonte per i masai. E così il lupo, l’orso, il castoro… diventano i nemici da battere mentre non si vedono gli enormi danni fatti dalla pastorizia e dalla monocultura.
Dall’Africa orientale all’Europa centrale, dalle isole britanniche al Sud America, Monbiot cerca non animali nuovi da scoprire, ma esplora gli ecosistemi «rewilding», cioè che sono stati «rinaturalizzati» perché è questa la nuova frontiera.
Monbiot dimostra praticamente i cambiamenti subiti da quei territori che sono stati liberati dall’intervento umano ed hanno potuto quindi riallacciare i fili interrotti della «rete della vita» ed ecco che ricompaiono magicamente specie scomparse ed anche altri animali ritenuti «dannosi» riescono al contrario a riequilibrare intere aree. Lupi, orsi, cinghiali, castori, balene… sono animali tutt’altro che «dannosi», ed anzi «sanificano» gli habitat: i lupi permettono la rigenerazione di foreste millenarie, le balene ripuliscono l’atmosfera dall’anidride carbonica, i castori prevengono inondazioni…
Un sistema di recupero, la rinaturalizzazione, già avviato da tempo e che purtroppo trova ancora ostacoli che permarranno fino a quando non muteranno i sistemi produttivi e non si rinnoveranno le nostre culture. Perché la rinaturalizzazione si scontra con la nostra logica moderna, infatti Monbiot dice: «il “rewilding”, a differenza dal conservazionismo, non ha un obiettivo fisso: non è guidato dai gestori umani ma dai processi naturali. Non vi è alcun punto d’arrivo prevedibile».
È pronto l’uomo a fare questo salto nell’incertezza, ad affidarsi completamente alla natura senza tornare ad essere preda delle sue paure?
http://vglobale.it/cultura/19094-il-%C2%ABrewilding%C2%BB-pu%C3%B2-salvare-il-pianeta.html