Due sono le angosce schiaccianti, in questi decadenti anni Dieci, nel pensiero del vecchio filosofo anarco-socialista americano, NoamChomsky, di sangue ucraino e antica ascendenza ebraica: i cambiamenti climatici e il pericolo nucleare. In entrambi i casi, queste angosce si tingono di catastrofismo, e di foschi pensieri sulla fine della civiltà umana; in entrambi i casi, Chomsky ribadisce le clamorose e inequivocabili responsabilità dell’imperialismo americano; in entrambi i casi, purtroppo non lascia intravedere speranze, o almeno non ne nomina, se non quasi distrattamente. La sua raccolta di saggi “Perché lo diciamo noi” [Piano B, 2017; euro 14, pp. 224; trad. Andrea Roveda], originariamente apparsa negli States nel 2015 [“Because We Say So”], è composta da trentaquattro tra articoli, brevi conferenze e corsivi vari, pubblicati tra 2011 e 2015; per un cittadino americano, è, nella totalità dei casi, sostanzialmente l’equivalente di una gogna (internazionale); per un cittadino occidentale, è un’iniezione di tristezza, di impotenza e di rabbia; per buona parte delle nazioni impegnate a resistere con dignità alle terrificanti malefatte statunitensi questa stoica solidarietà chomskyana è una magra ma fertile consolazione.

Chomsky ritiene che negli anni a venire gli storici osserveranno che quella che era la nazione più ricca e potente della storia, “in grado di godere vantaggi incomparabili”, si è piuttosto impegnata a intensificare le probabilità del disastro climatico con una politica miope, egoista e scriteriata, mentre le cosiddette società primitive tentavano di orientare i popoli nella direzione opposta (una direzione chatwiniana, diremmo noi, pensando alla magistrale lezione aborigena delle “Vie dei canti”). In questa oscura decade che stiamo vivendo, Chomsky deplora che a malapena un terzo della popolazione americana sia convinta che esista un enorme consenso scientifico sulla minaccia del riscaldamento globale, e che una minoranza assoluta abbia chiaro che il disastro del cambiamento climatico in corso è figlio, per primo, delle prepotenze e dell’assurdo egoismo nordamericano (seconda, la Cina).

Chomsky si spinge a meditare sulla necessità (santa) di de-americanizzare il mondo, come ha suggerito un commentatore cinese a fine 2013: questo per “prendere le distanze dallo Stato-canaglia che detiene il potere assoluto in campo militare ma sta perdendo credibilità in molti altri campi”: perché non si può non chiamare “Stato-canaglia” una nazione che ripetutamente ha compiuto massacri in Medio e in Estremo Oriente violando, a volontà, il diritto internazionale, ricorrendo metodicamente “all’aggressione e al terrore”, giocando la carta “dell’abituale rovesciamento di regimi parlamentari, dell’instaurazione di dittature feroci – in breve, dell’orrendo archivio americano di vari esercizi di ‘sostegno della pace e della stabilità’”. L’ultimo esempio è stata l’aggressione imperiale anglo-americana e francese ai danni della Libia, qui nel Mediterraneo, origine di una catastrofe umanitaria non ancora terminata: se ne parla in “Riconoscere le ‘non persone’” del 5 gennaio 2012.

Chomsky, come già in passato, ribadisce che considera la cosiddetta “anglosfera”, cioè Stati Uniti, Canada e Australia, composta da “società coloniali fondate sullo sterminio e l’espulsione di popolazioni indigene a favore di una razza più elevata, per le quali tale comportamento è considerato naturale e lodevole”: ritiene che non sia un caso che il sostegno più limpido alla politica antipalestinese di Israele venga proprio da questo humus. Molte delle pagine più terribili di questo libro sono dedicate a Gaza, “vetrina di violenze di ogni genere”, teatro di “atrocità accuratamente pianificate”; nel 2012, Chomsky saluta in Gaza “la prigione a cielo aperto più grande del mondo, dove circa un milione e mezzo di persone vive in un’area di 140 miglia quadrate di terra, soggette a terrore e punizioni arbitrarie”; per il grande linguista, Gaza è vittima di un “rigoroso assedio marittimo e aereo”, e anzi “un visitatore non può fare a meno di provare disgusto per l’oscenità dell’occupazione, insieme al senso di colpa”.

Altre pagine drammatiche sono dedicate alla memoria dell’infame attacco americano alla città irachena di Fallujah, nel novembre 2004: dopo settimane di bombardamenti con armi illecite, capitò un “crimine di guerra attentamente pianificato” cioè l’irruzione armata nell’ospedale, dove personale e pazienti vennero legati e obbligati a stendersi a terra per il tempo ritenuto necessario, nonostante le gravi condizioni dei degenti. Non basta: come già accaduto in Vietnam, a Fallujah si stanno verificando micidiali aumenti di cancro e leucemia, a quanto pare “perfino superiori rispetto a Hiroshima e Nagasaki”.

Chomsky non ha dimenticato il Vietnam, allucinante guerra d’aggressione nordamericana, “l’aggressione più criminale dai tempi della Seconda Guerra Mondiale”, guidata dall’oscuro e bieco J.F. Kennedy [cfr. almeno il vecchio libro “Alla corte di re Artù”] e poi da Johnson e Nixon. Bombe chimiche sganciate per avvelenare deliberatamente il terreno e distruggere le colture alimentari, defoliante alla diossina sparpagliato su tutto il Vietnam per privare i soldati della copertura del manto vegetale, bombardamenti a tappeto nel nord del Laos così violenti che costrinsero i contadini a vivere per anni nelle caverne, sono solo parte della sua personale commemorazione dei cinquant’anni dall’invasione yankee. Raggelante.

Ampio spazio, infine, è riservato alla questione iraniana, demistificata a dovere: “L’Iran ha una capacità molto limitata di dispiegare forze militari, e la sua dottrina strategica è su posizioni difensive, organizzata per resistere a un’invasione abbastanza a lungo per consentire alla diplomazia di avere effetto. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (fatto ancora da accertare) ciò farebbe parte della sua strategia di deterrenza”: già, perché in quell’area l’unica nazione dotata di arsenale nucleare è Israele, con limpido e strategico beneplacito nordamericano e inglese. È un fatto.

Interessanti i pezzi su Snowden e sull’avanzata americana in Ucraina; encomiabile la critica alla dottrina Obama; coraggiose le ripetute denunce delle arbitrarietà e delle malvagità commesse dagli angloamericani in Irak, in Afghanistan e in Libia, con l’Europa mediamente costretta o indotta al silenzio-assenso, quando non a uno scoperto, ma almeno limitato sostegno.

Credo che a Chomsky stia mancando, in vecchiaia, uno straccio di speranza – è come se non intravedesse le opportunità e le potenzialità solari del “Cigno nero” coniato da Taleb qualche anno fa; è come se stesse contando i passi che ci separano dal baratro, e basta. La sua critica alla politica estera statunitense è estremamente lucida e purtroppo impopolare; qui in Europa fatichiamo a tenere viva la memoria dei deliberati urbicidi americani e inglesi nella Seconda Guerra, nonostante le sirene dei bombardamenti aerei risuonino ancora oggi in qualche paesetto, in memoria delle tante vittime innocenti dell’assurdità di quegli episodi bellici; figuriamoci in quanti siamo rimasti a rivendicare estraneità e anzi profondo dissenso per la presenza inglese e americana nel Mediterraneo, e per la loro cruenta e omicida politica, dalla Libia alla Siria, e per certe loro oscene alleanze, come quella con l’impresentabile Turchia. Forse sognare non è proibito: forse, un giorno, a guidare la nazione più potente del mondo non sarà più la prepotenza della giustizia imposta dall’alto, “perché lo diciamo noi”, facendosi forte dell’arsenale nucleare e della memoria del suo impatto mostruoso sui poveri abitanti inermi di Nagasaki e Hiroshima; forse, un giorno, a guidare gli Stati Uniti e l’altra isoletta loro amica, l’Inghilterra, sarà un’intelligenza diversa, illuminata e filantropica, sensibile alle sofferenze plurime del nostro pianeta e rispettosa delle diversità dei popoli e delle culture. Che scandalo sarebbe se fosse un vero cristiano, o un monaco tibetano, ad amministrare questo impero!

Gianfranco Franchi

 

Perché lo diciamo noi