Intervista a Gianfranco Franchi

Gianfranco e io ci ronziamo attorno da un po’, ci annusiamo a debita distanza. Soppesiamo similitudini e differenze, studiamo le tracce che l’altro ha lasciato nei luoghi che ci troviamo a frequentare entrambi. Io come lui fondatore e direttore di un portale dedicato ai libri tra i più vivi e vitali del web italiano. Io come lui tifosissimo della Roma. Io come lui cresciuto in un quartiere romano, Monteverde, che entrambi viviamo come una vera e propria patria. Io come lui appassionato di politica ma da sempre ostinatamente fuori moda, atipico, controcorrente, eretico all’interno del mio schieramento (che intuisco peraltro opposto al suo, ma intimamente simile come tutti gli estremismi). Impossibile non fare una chiacchierata, quindi: ne converrete.

Sembri un po’ allergico alla pura fiction: la tua cifra – eccezion fatta per poesia e saggi veri e propri – sembra essere questa strana mistura di narrativa autobiografica, pamphlet e satira sociale. Non potremo mai leggere da te un romanzo propriamente detto?
Devo vivere tanta vita ancora, devo leggere tanto, devo osservare, devo ascoltare, devo meditare. Veniamo da un secolo di formidabile narrativa italiana: il Novecento degli Svevo, dei Moravia, dei Gadda, dei Pasolini, dei Berto, dei Pirandello, delle Morante, dei Guido Morselli, dei Paris, dei Parise, di Bianciardi. Per scrivere un romanzo ci si deve misurare con questi esempi. Serve o grande incoscienza o grande consapevolezza. Io non sono più incosciente come da ragazzo e per il momento non sono ancora abbastanza consapevole. E così invento la strana mistura che dici, invento una strada nuova, qualcosa di diverso…

Che ti hanno fatto di male i manuali di self-help e roba simile?
Sì… tendenzialmente sono un elemento di distrazione di massa; sono un elemento fondante della farlocca industria del libro contemporanea; sono un viatico al niente. Intrattengono, quando va bene, e non insegnano niente. E tuttavia intasano le librerie. E gonfiano i fatturati. Si fondano, insomma, su logiche che proprio non condivido.

Ma non è che a forza di progettare (o sognare di progettare) Piani B si corre il rischio di dimenticare come si fa a perseguire i Piani A?
Personalmente, sono soltanto un evangelista pianobista: uno che ha deciso di omaggiare la fantasia, l’insolenza e l’irriverenza di quelle figure misteriose, stravaganti e fiabesche che riescono a cambiare la loro vita, lo stato delle cose e a rovesciare la tristezza e la malinconia con grande semplicità, come niente fosse. Sospetto di essere un uomo da Piano A. Al limite da Piano C. Un ammiratore dei pianobisti.

Sei da tanti anni l’animatore di un sito letterario tra i più seguiti, Lankelot: per quali motivi secondo te è impossibile in Italia non dico guadagnare, non dico campare, ma nemmeno arrotondare con un’attività del genere, mentre nei Paesi anglosassoni è possibile – se non addirittura normale?
Questione di numeri, in prima battuta. Questione di parlare una lingua che nel mondo hanno dimenticato quasi tutti. Noi italiani siamo sessanta milioni, e se includiamo gli italofoni del Ticino, delle coste adriatiche e balcaniche, delle coste africane e via dicendo le cose non cambiano molto. Quelli restiamo. La lingua inglese, invece, è parlata o compresa da miliardi di persone. Un’industria editoriale che può confidare sul mercato nordamericano, inglese, canadese, indiano e australiano, per intenderci, è un’industria felice: con prospettive straordinarie. Noi dovremmo dedicarci con ben diverso amore e rispetto ai nostri milioni di concittadini sparpagliati tra i continenti, da una, due, tre, quattro, cinque generazioni, e richiamarci al loro amore non per questo Stato (difficile amare qualcosa di buio come uno Stato forzista), non per questa epoca, ma per la nostra storia antica e complessa, e per la nostra letteratura, bellissima – unica al mondo.

 

Ti definiresti uno scrittore politico? La letteratura per te ha una marcia in più se affonda i denti nel sociale, oppure ha un senso anche il distacco dalla realtà?
Mi sento uno scrittore politico perché so che tutto quel che ognuno di noi fa ha valore politico. Mi sento perfettamente estraneo ai partiti esistenti e ai movimenti politici esistenti. Non mi riconosco in nessuno e non appartengo a niente. Sono profondamente deluso da quanto avvenuto nel nostro Paese dagli anni Novanta ad oggi, da quando ero adolescente. Quanto al resto, la letteratura per me ha una marcia in più se rispetta i cittadini, se difende chi soffre, se racconta le ragioni e le dinamiche della decadenza per rovesciarla, e per risolverla. Se dà speranza: se insegna qualcosa: se fa sognare. Non credo invece nel realismo, credo al limite nella possibilità di una letteratura dal valore documentaristico. Non credo che la nostra arte possa rappresentare correttamente la profondità e la complessità di tutto ciò che è, di tutto ciò che esiste. Forse solo la poesia potrebbe. Ma io l’ho perduta.

Si sente parlare spesso delle radici cristiane dell’Europa. Ma le nostre radici non sono romane e pagane, casomai?
Le nostre radici sono, inevitabilmente e assolutamente, greco-romane: e quindi pagane. E questo paganesimo è la grande chiave di volta per poter rivendicare autentica tolleranza, autentico rispetto dell’alterità, possibile assimilazione degli idoli di tutti nel pantheon dell’Europa: per animare una dialettica civile e democratica – almeno nella mia visione. Ora io credo, naturalmente, che il cristianesimo abbia saputo ereditare la lezione e l’intelligenza della cultura greco-romana, soprattutto tramite il culto dei santi; il discorso si complica, invece, quando si parla di chiese e di storia delle chiese. Mi sento, personalmente, un cristiano che ha alle spalle la saggezza profonda e stupenda dei greci, e dei romani. Molto orgoglioso di queste radici. Peccato sapere così poco degli etruschi.

Perché noi di Monteverde la facciamo sempre così lunga con questo Monteverde?
Perché è l’ottavo colle, il Gianicolo. Perché siamo Roma-non Roma. Perché siamo un’antica frontiera. Perché il nostro quartiere è un paesotto, un paese in cui si vive bene, non si muore di traffico, ci si sposta a piedi, si scompare nei parchi a meditare sul cielo e sugli alberi e sui prati. Perché camminiamo dove aveva camminato Pier Paolo Pasolini, dove avevano camminato Caproni, Bertolucci, Gadda. Perché da dove siamo noi Roma la puoi guardare ancora così com’era, prima del disastro dell’edilizia selvaggia del Novecento. Una cosa del genere.

David Frati

 

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