Due libri diversi per carta e formato, per provenienza, foliazione e collana. Il primo: una raccolta di saggi dell’autore de Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde, scritti tra il 1871 e il 1888. L’elenco recita Una difesa dei pigriIl carattere dei caniVecchiaia scorbutica e gioventùConversazione e conversatoriCome apprezzare i luoghi sgradevoliPulvis et umbra. Traduzione suddivisa tra Silvia Franceschini e Antonio Tozzi. Il secondo: libro primo (a cura di Alessandro Miliotti) di un’opera apparsa tra il 1902 e il 1913 a firma Léon Bloy, penna acuminata con una lunga serie di nemici, tra cui Zola. Due libri uniti dal marchio Piano B e dallo spirito ribelle, più sornione in Stevenson, più pirotecnico in Bloy, che con gli occhi di oggi parrebbe il prozio del miglior Aldo Busi. Too much information? Andiamo per ordine. Le edizioni Piano B esistono dal 2007 e incarnano come pochi un concetto fumoso, a volte truffaldino e troppo spesso morituro: la piccola editoria di qualità. Basta guardare il catalogo per accorgersi che questi fanno sul serio, e i loro libri (dal costo peraltro ragionevole) snocciolano grandi idee di grandi autori, con un genio per la chicca, il testo inedito – nel caso di Stevenson ne abbiamo tre – o l’antologia sfiziosa, come i saggi wildiani che vanno a formare La disciplina del dandy. Occhio poi alle collane: Esegesi dei luoghi comuni rientra nella Mala parte, graffa di pamphlet scomodi o ingiustamente dimenticati; La filosofia dell’ombrello, dal canto suo, è l’N di nitrogeno nella tavola degli elementi, ed Elementi è il nome di una curiosa collana destinata a completarsi con l’ottantaduesimo titolo, il darmstadio. Visto che la tavola riprodotta sul retro del libro è diversa da quella attualmente in uso, lascio volentieri agli esperti in materia la risoluzione dell’enigma. Il modo migliore per leggere i libri di Piano B è immaginarsi di essere Oscar Wilde in un’oziosa domenica al Trinity College di Dublino, con una tazza di tè fumante sul tavolinetto e la sensazione di essere al riparo dalla barbarie imperante dei benpensanti. Solo così si può suggere la linfa vitale di testi come Una difesa dei pigri o Vecchia scorbutica e gioventù, in cui si condanna la tendenza a preferire “i proverbi codardi e prudenti” e si afferma senza tema che “la maggior parte della nostra saggezza tascabile è destinata alle persone mediocri, per scoraggiarle da tentativi ambiziosi e in generale per consolarle nella loro mediocrità” (p. 42). E se l’antologia di Stevenson si conclude col posato e malinconico Pulvis et umbra, l’Esegesi dei luoghi comuni di Bloy riserva una gragnuola di ceffoni dalla prima all’ultima pagina, visto che l’autore riesce a non perdere verve e vis critica nemmeno al centoottantatreesimo modo di dire “spiegato”, o meglio fatto a pezzi, dinanzi ai nostri occhi increduli. Bloy ha un obiettivo dichiarato: la borghesia, e il “baratro della sua stupidità”. La missione di listare e snocciolare uno per uno, come i grani di un rosario pagano, i luoghi comuni che tuttora rimpolpano le nostre conversazioni (e non di rado le puntellano in assenza di argomenti veri), galvanizza l’autore come una pera di quelle di una volta, che se non stai attento crepi nel cesso con una siringa nel braccio. E il risultato è una scrittura che il curatore descrive giustamente come iperbolica, caustica, a rischio esasperazione. Iperbolica e parabolica, data l’inclinazione di Bloy a esprimersi per raccontini che parodiano quelli biblici. Prendiamo il luogo comune LXXXII, Ammazzare il tempo: “Nella retorica del Borghese, ammazzare il tempo significa semplicemente, non c’è bisogno di dirlo, divertirsi. Quando il Borghese s’annoia, il tempo vive o resuscita. Che lo capiate o no, è così. Quando il Borghese si diverte, si entra nell’eternità. I divertimenti del Borghese sono come la morte” (p. 94). Il recupero di Léon Bloy, autore degno della Piccola Biblioteca (e pubblicato da Adelphi l’ultima volta negli anni Novanta) è un’operazione editoriale e culturale di altissimo valore, che unisce la tanto temuta “sostanza” con la possibilità di sganasciarsi dal ridere. Gustave Flaubert, autore postumo di un Dizionario dei luoghi comuni apparso tra il 1911 e il 1913, avrebbe applaudito. E con lui tutti quelli che in cuor loro sanno, con un po’ di malizia, che “Non si deve essere più cattolici del papa”.

Simone Buttazzi

 

http://www.corpo12.it/?p=757