“Sembra appena uscito dalla bara”, sussurrò uno alla sua ragazza, e chiunque venisse sfiorato da quegli occhi morti tremava (“Orrore”). Della guerra scrisse John Dos Passos nel sublime, autobiografico “L’iniziazione di un uomo”. Ne “La paga del soldato” William Faulkner tratteggia l’amarezza del ritorno dal fronte, quando si scopre che si è combattuto per nulla e che la vita è andata avanti lo stesso e la scena degli affetti è mutata. Hemingway a 19 anni era sul fronte italiano e poi in Spagna (“Addio alle armi”) a difendere la Repubblica, di guerre ne sapeva e si augurava che i primi a morire dovevano essere i “porci” che l’avevano dichiarata. Per Dino Buzzati la guerra è l’eterna attesa di qualcosa che ci cambi la vita. Di guerra scrisse anche Bertrand Russell. “La guerra è umana quanto l’istinto sessuale”, “è sempre stata la disputa del sangue a decidere”,(Pacifismo). Dalla guerra di Troia allo sbarco in Normandia, dai bambini-soldato in Africa drogati e il fucile a tracolla a quelli di Kabul col tritolo addosso. Oggi la guerra è senza fronte, impregna l’aria, diffonde paura anche senza armi: una mutazione filologica inattesa, che attende nuovi scrittori per misurarsi con la sua nuova semantica. Influenzato dalla psicanalisi e dalle idee del socialismo che avanza, Ernst Junger ne “La battaglia come esperienza interiore” (Piano B Edizioni, Prato 2104, pp. 140, euro 13, collana “La mala parte”, con la traduzione di Simone Buttazzi) la osserva da una visuale diversa. Di storie di trincea, di attesa, di eroismi e vigliaccherie ne abbiamo tante. Di anabasi anche: pensiamo a quella dei soldati italiani che morirono congelati in Russia. “In faville divine il sangue schizza nelle vene quando si marcia sui campi diretti alla battaglia…”, (Coraggio). Il filosofo tedesco invece entra nell’intimo dell’etimologia, ci fa percepire il disgusto, l’orrore, il baratro fangoso in cui l’uomo si rivolta. Non è il limo della trincea allagata, ma quello interiore che lo attrae e che scandaglia con le armi che gli dà il pensiero razionale di cui è erede e portatore. Non parla dai comodi salotti letterari né dalle accademie, ma dalla trincea e, con uno sguardo possente, evocativo, ce ne fa percepire l’odore, il sudore, il sangue, la terra rappresa. Da lì, elevato a ombelico del mondo, egli osserva il mondo, la politica, gli equilibri, l’economia, la società con gli occhi curiosi e disincantati di chi conosce il cuore e la mente dell’uomo. Cos’è per lui la guerra se non una formidabile occasione di far stendere sul lettino dell’analista l’umanità e scrutare dentro i meandri del suo essere oscuro, dell’io più segreto? “Riempirei tomi su tomi con i pensieri che mi vorticano nel cervello durante una guardia solitaria”, (“Tra noi”).

Francesco Greco

 

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