Il fantasma di Verne

Non tutte le pennellate sono quelle di Van Gogh; non tutte le voci sono quella di Eddie Vedder; non tutti gli spartiti sono quelli di Guccini. Non tutti i film sono “Miracolo a Milano”; non tutti gli attori sono Gian Maria Volonté; non tutte le parole fanno, insieme, una poesia. Non tutti i progetti sono rivoluzioni; non tutte le stelle fanno avverare i desideri; non tutti i fiori sono rose.
Non tutti gli scrittori di fantascienza sono Jules Verne. Verne, che ha fatto volare l’uomo nei cieli e nello spazio quando l’uomo faceva fatica a stare con i piedi saldi in terra. Verne, che ha portato un’umanità di non palombari sott’acqua; Verne, che ha brevettato il sogno dell’avventura, l’ha coniugato con l’(apparentemente) impossibile e declinato con il probabile fino al punto apicale, fino alla produzione di romanzi quali ‘Michele Strogoff’, ‘Il giro del mondo in ottanta giorni’, ‘Ventimila leghe sotto i mari’. Verne, che, come e forse più di Salgari, ha preso per mano generazioni di piccoli lettori, conducendole sul declivio della letteratura e rovesciandogli addosso frane di parole e slavine di racconti.
Verne che, quando il sole scandiva l’anno 1892, dette alla luce il magnifico feto chiamato “Il castello in Transilvania”, riedito in Italia lo scorso autunno da Piano B a 120 anni dalla sua prima uscita. Vale a dire, cinque anni prima dell’esplosione del ‘Dracula’ di Bram Stoker che eterificherà la regione rumena all’altare della scrittura. Un lungo racconto tanto celato quanto affascinante, quello firmato da Verne, in cui tutto ruota attorno alle vicende del villaggio di Werst e del suo castello abbarbicato in vetta ad un monte. Un villaggio particolare, quello di Werst. Piccolo. Anzi, nucleico: isolato dal mondo, una strada principale, una sessantina di case in tutto e non più di duecento abitanti. A popolarlo, un’antropologia stramba: un giudice ingordo, un maestro che non insegna che leggende popolari e qualche nozione essenziale, un oste superstizioso e insicuro, un medico acerrimo nemico della scienza. Su tutto, un maniero apparentemente abbandonato, arroccato sui Carpazi, possesso di una famiglia di baroni, i de Gortz, il cui ultimo rappresentante, Rodolphe, è scomparso d’improvviso per inseguire il suo sogno migrante di girare l’Europa. Ma quando, d’un tratto, uno dei camini della torre centrale ricomincia a fumare, tutti, nel paese, credono che sia il diavolo in persona ad avervi trovato albergo. Vuoi per l’aspetto sinistro che lo contraddistingue; vuoi per tutta una serie di fenomeni minacciosi e sovrumani che vi si verificano intorno. Così, quando il giovane conte Franz de Telek s’impegna nel fare luce su quanto accade, contrastando le teorie superstiziose degli abitanti di Werst con la sua urgenza di razionalità, tutti sono ben soddisfatti di lasciargli campo. Ben presto, però, il nobile dovrà scontrarsi con eventi che travalicano le sue convinzioni: un amore creduto morto da tempo che, invece, ritorna, un avversario che vuole vendetta e che tutto sa e muove, e quel castello che si credeva abbandonato e che, invece, è ancora abitato.
Come una sigaretta proibita fumata di nascosto dallo sguardo degli adulti, come un bacio rubato alla foto dell’attrice stampata su una rivista patinata, come un goal segnato all’ultimo minuto nel torneo di quartiere, “Il castello in Transilvania” è capace di condensare, nel soffio di 150 pagine, senso di ribellione, estasi amorosa, brivido adrenalinico. E poi azione, mistero, follia. Un libro appassionante, potente e letale. Imperdibile per i cultori del genere, necessario per i patiti di Verne, obbligato per tutti quanti amano ancora stupirsi con la letteratura classica, che adorano la semplicità complessa delle minuziose descrizioni, che amano impiegare il tempo fabbricandosi i paesaggi nella mente. Un libro degno di essere impilato, e a tutto merito, accanto alla produzione più autentica dello scrittore francese, catalogato nello scaffale dei senza tempo.

Piero Ferrante

 

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