Tolstoj e Nietzsche sul lettino dell’analista

I “grandi” sul lettino dell’analista. Per confessare i loro segreti, pudori, debolezze, sofferenze. E’ l’idea di fondo di “Uomini e destini”, di Stefan Zweig, Piano B Edizioni, Prato 2016, pp. 168, euro 15 (Collana “La mala parte”).
Una gallery trasversale al tempo, per un libro delizioso, che dovete assolutamente procurarvi. Perché lo scrittore nato in Austria (1881), naturalizzato britannico e morto in Brasile (1942) riscrive totalmente le biografie di 9 personaggi storici su cui si pensava di sapere tutto, ma usando il format freudiano, in auge in quegli anni, invece, Zweig, con pennellate rapide e incisive, espressioniste, li svela in una dimensione del tutto nuova e intrigante. Lasciando il lettore a bocca aperta.
Poiché quelle parabole esistenziali racchiudono il senso del loro tempo, le dinamiche sociali e politiche, sociologiche a e antropologiche usi, costumi, superstizioni. Zweig è più implacabile dell’entomologo, più certosino di un amanuense, anche nello svelare falsi storici, nel relativizzare le versioni ufficiali e le leggende metropolitane.
La provenienza dal giornalismo si sente ed è prevalente nello stile rapsodico, essenziale, privo di orpelli e di accademia.
Un valore aggiunto che impreziosisce l’opera. Che propone uomini e donne che hanno lasciato una traccia non lieve nella storia. Si apre con Amerigo Vespucci, che ha dato il nome al continente americano pur essendo arrivato dopo Cristoforo Colombo. Ma, ieri come oggi, la comunicazione prevale e dire di aver toccato il suolo dell’America per primi significa che poi storici e geografi difficilmente smonteranno la vulgata metabolizzata dai popoli e incardinata nel tempo. Non vuol dire che nel Cinquecento non ci furono dispute, e infatti Zweig lo dice: “Oggi queste polemiche, con tutte le loro ipotesi e prove, riempiono un’intera biblioteca; gli uni ritengono il padrino di battesimo dell’America un amplificator mundi, uno dei più grandi estensori del nostro mondo, uno scopritore, un navigatore, un erudito di alto livello; gli altri, invece, il più sfrontato bugiardo e imbroglione della storia del mondo”.
Stupendo l’apologo su Beatrice Cenci (“figlia di suo padre, scaltra, decisa a tutto”): è lei quella del ritratto attribuito a Guido Reni in cui lo sguardo “è del tutto privo di angoscia e stupore”? Sublime l’accostamento del padre perverso, Francesco Cenci (“ricco soltanto per via di sporchi sfruttamenti”) a Fedor Karamazov, per incarnare un patriarcato violento e rapace nel post-Medioevo che sbocca nel Rinascimento quando “si nascondono male i panni sporchi di sangue” e la nobiltà è tradita da un contadino avido e rozzo come Olimpio, padre del “bambino anonimo nel testamento” della sfortunata nobildonna che poi diviene un’eroina del popolo, “nobili e accattoni”, “in una processione enorme, mettono candele vicino al patibolo, portano fiori e corone, come se lì fosse morta una santa e non una parricida”.
Della “tragica oscurità dell’anima” di Lord Byron, della passione quasi patologica di un Proust malaticcio per i salotti di Parigi dove osservava e annotava ogni sfumatura (poi finita nella sua grande opera) e della follia che colse Nietzsche (“una crociata contro la Croce”) e della pietas della madre (“mater dolorosa”) che dal manicomio se lo porta a casa, il lettore apprenderà da solo.

Francesco Greco

 

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